Quando si diventa anziani?

ADTS diabete

Da circa un decennio si discute della necessità di posticipare la soglia di inizio dell’anzianità dai 65 anni ai 75 anni. Si attribuisce al cancelliere tedesco Otto Von Bismarck ( 1815-1898 ) la scelta che la vecchiaia inizi a 65 anni. Alcuni studiosi ritengono che l’idea nacque per puro calcolo politico. Egli aveva notato che tutti i suoi avversari politici nella corsa al potere avevano più di 65 anni ed erano impiegati governativi. Per questo motivo nel 1870 portò avanti una proposta di legge che costringeva tutti i dipendenti pubblici che avevano raggiunto i 65 anni ad andare in pensione; questo avrebbe verosimilmente favorito la rinuncia di qualche avversario e facilitato la sua ascesa al potere. Altri gli riconobbero invece una lungimirante intuizione politica sulla necessità di istituire un sistema pensionistico. Le date storiche non confermano l’ipotesi più maliziosa. Infatti il Parlamento ( Reichstag ), votò in favore della legge sul piano pensionistico il 24 maggio 1889. Dopo il passaggio alla seconda camera del Parlamento ( Bundesrath) e la firma dell’imperatore Guglielmo II, la legge fu promulgata il 26 giugno 1889, fissando il pensionamento all’età di 70 anni. Inoltre i dipendenti pubblici furono esentati dalla nuova legge; erano coperti da un piano pensionistico diverso, ritirandosi dopo 40 anni di servizio. Nel 1889 Otto Von Bismarck era oramai molto vicino alla fine della sua lunga carriera politica e nel 1890 all’età di 74 anni rassegnò le dimissioni. Nel 1916 circa 2 decenni dopo la sua morte, l’età di pensionamento in Germania fu ridotta a 65 anni ( ricordiamo che a quel tempo l’aspettativa di vita in Germania era 37 anni per i maschi e 41 anni per le femmine).

Quindi non è storicamente accertato che Otto Von Bismarck sia responsabile della scelta che l’anzianità inizi a 65 anni. L’opportunità di una nuova definizione cronologica del concetto di anzianità si impone per diverse rilevazioni. Innanzi tutto l’allungamento medio della spettanza di vita alla nascita; in Italia 85 anni per le donne e 82 anni per gli uomini. I dati demografici dicono che in Italia l’aspettativa di vita è aumentata di circa 20 anni rispetto alla prima decade del 1900. Inoltre buona parte della popolazione tra i 60 e i 75 anni è in forma e priva di malattie per l’effetto ritardato di sviluppo delle malattie e dell’età della morte. Considerare anziani i 65enni è anacronistico, visto che risultano in forma fisica e cognitiva come i 45enni di 30 anni fa e un 75enne come un individuo che aveva 55 anni nel 1980. Una ricerca condotta in Svezia ha evidenziato che i test cognitivi e di intelligenza ottengono risultati migliori nei 70enni di oggi rispetto ai loro coetanei di 30 anni fa. Si ottengono risultati migliori perché sono più colti, più attivi e meglio curati rispetto al passato. Queste constatazioni hanno portato a nuove categorizzazioni nel linguaggio comune e per esempio si dividono le persone con più di 65 anni tra chi appartiene alla terza età ( condizionata da buone condizioni di salute, inserimento sociale e disponibilità di risorse) e alla quarta età ( caratterizzata da dipendenza da altri e decadimento fisico).Vi è anche un’altra suddivisione usata per distinguere le diverse fasi dell’anzianità; si riconoscono 4 sottogruppi: “ giovani anziani”( persone tra i 64 e i 74 anni), “anziani” ( 75-84 anni), “ grandi vecchi” ( 85-99 anni) e “ centenari “. Queste condizioni hanno portato gli studiosi delle biologia dell’invecchiamento ( gerontologi) e quelli che si occupano dei problemi di salute delle persone anziane ( geriatri ) a proporre di aggiornare il concetto di anzianità portando a 75 anni l’età ideale per definire una persona “anziana”.

Naturalmente tale nuova soglia dell’anzianità ha valore locale, nei singoli paesi ( in Africa la speranza di vita è ben inferiore) ne può essere utilizzata per proporre modifiche all’età di pensionamento che deve necessariamente tenere conto di diversi fattori, del contesto lavorativo ( lavori usuranti, turnazione,lavoro intellettuale e lavoro manuale, lavoro famigliare, ect), dello stato di salute dell’individuo, delle compatibilità economiche e della platea contributiva. Questo scenario globalmente positivo deve però parallelamente imporre considerazioni e riflessioni per non trovarci impreparati in un prossimo futuro di fronte a problemi che devono trovare soluzioni il più eque possibili. Le proiezioni statistiche prevedono nel 2050 circa 160.000 centenari, sicuramente molti non autosufficienti. Di fatto nella popolazione degli ultra75enni aumenta la multimorbilità e l’ospedalizzazione soprattutto in riabilitazione e lungodegenza. Gli Italiani si ammalano di più perché vivono più a lungo, ma anche per la crescente diffusione delle patologie croniche. A fronte di un generale miglioramento delle aspettative di vita si ha anche un peggioramento delle condizioni di salute con importanti conseguenze sociali ed economiche. Per meglio comprendere le ripercussioni di questi cambiamenti si studiano nuovi parametri per valutare la qualità degli anni di vita in più come i cosidetti anni vissuti in un cattivo stato di salute ( YLDs=years lived with disability) o in condizioni di disabilità ( DALY=disability adjusted life years). Rilevazioni prese tra il 1990 e il 2013 mostrano un progressivo incremento di questi parametri negativi che interessano tutti i paesi, in particolare il nostro dove la variazione è del 20%.

Questi parametri crescono della metà in Germania e in Danimarca rispetto ai nostri, e fanno meglio di noi anche Svezia, Finlandia, Belgio, Gran Bretagna. Lo stesso vale per i fattori di rischio ; sovrappeso ed obesità ( anche infantile) sono in crescita; sempre più alta l’incidenza di ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete mellito. Tutto questo ha un impatto particolarmente negativo nel nostro paese notoriamente tra i più sedentari del continente. Dati allarmanti per un paese dove la spesa sanitaria è inferiore del 28,7% alla media europea. Se guardiamo alla spesa procapite per la prevenzione, il divario con i paesi dove si ha una crescita più bassa del parametro degli anni vissuti in un cattivo stato di salute è ancora più evidente; noi spendiamo procapite 66.3 euro, la Germania 99,5, la Finlandia 104,3, la Danimarca 114,4, il Belgio 115,2, la Svezia 131 ( cioè i paesi dove si vive in uno stato di salute migliore sono quelli che investono di più nella prevenzione). L’ultimo piano nazionale della prevenzione 2014-2019 del Ministero della Salute oramai superato e in attesa di essere sostituito da quello 2019-2023, elencava una serie di interventi per promuovere stili di vita più salutari ( parole ), ma non ha evidenziato l’entità degli stanziamenti ( fatti ). Pur riconoscendo la necessità di concentrarsi dal punto di vista politico su risanamento ed efficienza, non si può comunque ignorare che tra crisi economica e riorganizzazione del SSN con aumento delle compartecipazioni da parte del cittadino, l’accesso alle cure è diventato più difficile. In particolare è stata colpita la classe media che paga il ticket e ha sempre meno mezzi di accesso al privato. Tra il 2012 e il 2013 la spesa “ out of pocket” ( di tasca propria ) è cresciuta del 14,5% ed oramai 3 milioni di italiani vi hanno rinunciato ed è stata causa diretta di impoverimento per 100.000 famiglie. Si crea così un circolo vizioso, con una popolazione che si ammala sempre più e si cura sempre meno ed è pertanto meno produttiva. E’ tempo di identificare modelli di cura qualificati, piani di prevenzione per le malattie croniche più frequenti in una popolazione sempre più anziana e a maggior rischio di disabilità, prevenzione che deve iniziare nei primi anni di vita e durare per tutta la vita.

Dr Angelo Margiotta